Ferite Capo Plaza




Era freddo, ma non così freddo da bloccarmi. Ma quando l’ho visto, lì sulla panchina, ho sentito un brivido di ghiaccio percorrermi la schiena.
Mi ha guardato negli occhi e ho saputo subito che qualcosa era terribilmente sbagliato. Il suo viso era ferito, il sangue gli colava giù per la guancia.
"Cos'è successo?" gli ho chiesto.
Ha sorriso, ma era un sorriso amaro. "Mi sono ferito", ha detto. "Sono caduto".
L'ho aiutato ad alzarsi e l'ho portato al mio appartamento. Mentre lo aiutavo a pulire le ferite, ho notato che non erano solo ferite fisiche.
Erano ferite dell'anima.
"Come ti sei fatto male?" gli ho chiesto.
Ha esitato per un momento. "Ho litigato con qualcuno", ha detto. "Una persona a cui tenevo".
Mi ha lasciato solo con quelle parole. Non ho chiesto altro, sapevo che non era il momento.
L'ho lasciato riposare e sono uscito a fare una passeggiata. Mentre camminavo, ho pensato a lui e alle sue ferite.
Ero arrabbiato con quella persona che lo aveva ferito. Ma ero anche arrabbiato con lui.
Perché si era lasciato ferire? Perché non si è difeso?
Ma poi ho capito.
Non si era difeso perché non aveva voluto ferire quella persona. Perché anche lui le voleva bene.
E in quel momento ho capito che le ferite più dolorose sono quelle che non si vedono.
Sono le ferite del cuore.
Le ferite che ci lasciano cicatrici che non andranno mai via.
Ma non sono ferite che ci definiscono.
Sono ferite che ci rendono umani.
Sono ferite che ci rendono forti.
L'ho trovato addormentato quando sono tornato a casa. Ho guardato il suo viso pacifico e ho sorriso.
Sapevo che avrebbe superato anche queste ferite.
Perché era un sopravvissuto.
E io ero lì per lui.
Sempre.