A 100 anni dallo sbarco, i ricordi ancora vivi di chi è sopravvissuto all'inferno di Gallipoli.
Io sono uno di quei sopravvissuti. Avevo 19 anni quando mi arruolai nel Corpo di Spedizione Neozelandese e partii per la Turchia. Non avrei mai immaginato che sarei tornato a casa un uomo diverso, segnato per sempre da quell'esperienza.
Lo sbarco nella penisola di Gallipoli, il 25 aprile 1915, fu un disastro. Le truppe alleate furono decimate dal fuoco nemico e dalla mancanza di preparazione. Io riuscii a sopravvivere, ma persi molti amici.
I mesi successivi furono un inferno. Ci trincerammo sulle colline, sotto il costante bombardamento dell'artiglieria turca. Il cibo era scarso, l'acqua inquinata e le condizioni igieniche pessime. Vedevamo i nostri compagni morire ogni giorno, colpiti dalle granate o dalle malattie.
Io ero uno dei tanti che soffriva di dissenteria. Ero così debole che non riuscivo a tenere in mano il fucile. Ma non volevo arrendermi. Volevo sopravvivere.
Il momento più difficile fu quando i turchi lanciarono un attacco notturno contro le nostre trincee. Il combattimento fu feroce. Vidi i miei compagni cadere uno dopo l'altro. Alla fine, rimasi solo, ferito e senza munizioni.
Mi credevo perduto, ma all'improvviso vidi un soldato turco che mi puntava contro la baionetta. In quel momento, pensai che fosse la fine. Ma poi il soldato abbassò l'arma e mi fece segno di seguirlo.
Mi portò nel suo accampamento, dove fui curato dalle sue ferite. Rimasi con i turchi per diversi mesi, fino a quando non fui liberato dopo uno scambio di prigionieri.
Tornai a casa un uomo diverso. Avevo visto l'inferno e avevo perso molti amici. Ma ero anche grato di essere vivo e di avere una nuova prospettiva sulla vita.
Oggi, a 100 anni di distanza, ricordo Gallipoli con un misto di dolore e gratitudine. È stato un momento terribile, ma mi ha anche insegnato il valore della vita e dell'amicizia.
Spero che la storia della mia sopravvivenza possa ispirare gli altri a superare le avversità e a trovare forza nella speranza.