Milo Infante, il volto umano del giornalismo




Di tutti i mestieri possibili, da bambino sognavo di fare il giornalista. In fondo per essere un bambino italiano degli anni '60, era un miraggio comune. La televisione era tutto, c'erano tre canali, e chi ci lavorava per me era una specie di supereroe.
Però non mi ero mai immaginato di fare cronaca nera o tanto meno giudiziaria. Quel mondo, fatto di delitti, morti violente e storie terribili, mi spaventava.
E invece, dopo un po' di gavetta, ecco che mi trovo a seguire per Chi l'ha visto? il caso di Sarah Scazzi e poi quello di Yara Gambirasio. Due casi che hanno sconvolto l'Italia, due storie che mi hanno messo a dura prova.
Ho passato notti insonni, ho seguito i processi, ho parlato con gli inquirenti e con i familiari delle vittime. Ho visto il dolore, la disperazione, la rabbia. E ho capito che il giornalismo non era solo un mestiere, ma una missione.
Una missione per raccontare la verità, per dare voce a chi non ce l'ha, per cercare giustizia. E' una missione che mi ha cambiato la vita.
Oggi sono un giornalista diverso da quello che ero prima. Sono più consapevole, più attento, più umano. E sono grato per questa opportunità che mi è stata data.
Perché il giornalismo è un mestiere meraviglioso. E' un mestiere che ti permette di entrare nella vita delle persone, di ascoltare le loro storie, di aiutarle. E' un mestiere che ti fa crescere, che ti insegna il valore della vita e dell'amore.
E' un mestiere che ti rende umano.